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Questo sogno è dentro un altro, e così all'infinito




                                                                           
      Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo

                                                                                                  chimerico di forme incostanti, questo mucchio di   

                                                                                                  specchi rotti.


                                                                                                    J.L.Borges








Quel labirinto senza fine di memorie, di illusioni, di rispecchiamenti, di miraggi, di spaesamenti e infine di rivelazioni che è la mostra di Giuseppe Modica intitolata “Atelier” e presentata nella casa-studio di Hendrik Christian Andersen fa venire alla mente il racconto “Le rovine circolari” di Jorge Luis Borges in cui un mago (e la pittura in fondo non è pura magia?) “voleva sognare un uomo: voleva sognarlo con minuziosa completezza e imporlo alla realtà. […] Nel sogno dell’uomo che sognava, colui che era sognato si svegliò”. Era suo figlio, “pensato viscera dopo viscera e tratto dopo tratto, in mille e una notte segrete”. All’improvviso “le rovine del santuario del Dio del Fuoco vennero distrutte dal fuoco. […]”. Il mago “camminò contro le lingue di fuoco. Esse non morsero la sua carne, esse lo accarezzarono e lo inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era un’apparenza, che un altro lo stava sognando”. Ecco, innumerevoli germinazioni e memorie di atelier di e con altri artisti (Antonello da Messina, Dürer, Caravaggio, Velázquez, Man Ray, ecc.) sono nate nell’atelier di Modica per poi giungere in quello di Andersen in un andamento circolare, senza fine, nel sogno del sogno della pittura sognata a sua volta da altri artisti, chissà quando e chissà dove. Né possiamo dimenticare, per una curiosa coincidenza “onirica”, che sulla tomba della famiglia Andersen è scritto: “qui dormono i sognatori”.

L’Atelier per eccellenza a cui rimanda concettualmente tutta la pittura di Modica è quello de “Las meninas” di Velázquez per quell’intreccio fra realtà ed illusione, per quel gioco con la verità e con le apparenze, che costituiscono il cuore di quel capolavoro e della Pittura, fondata sull’atto stesso, complesso ed enigmatico, del vedere. Come ha scritto Michel Foucault nelle sue intense pagine sul capolavoro del grande sivigliano, “Di quale spettacolo si tratta, a chi appartengono i volti che si riflettono dapprima nel fondo delle pupille dell’infanta, poi in quelle dei cortigiani e del pittore, e da ultimo nella luminosità lontana dello specchio? Ma la domanda immediatamente si sdoppia: il volto riflesso dallo specchio è al tempo stesso quello che lo contempla; ciò che guardano tutti i personaggi del quadro sono ancora i personaggi ai cui occhi essi vengono offerti come una scena da contemplare. Il quadro nella sua totalità guarda una scena per la quale esso a sua volta è una scena. Pura reciprocità che lo specchio guardante e guardato manifesta, e i cui due momenti sono risolti ai due angoli del quadro: a sinistra il rovescio della tela ad opera del quale il punto esterno diviene puro spettacolo; a destra il cane disteso, unico elemento del quadro che non guardi né si muova, essendo fatto, con la sua massa voluminosa e la luce che gioca nel pelo lucido, soltanto per essere un oggetto da guardare”. Modica ha meditato profondamente, per anni, sul prodigioso illusionismo di questo capolavoro totalizzante, che porta nello spazio interno della pittura quello esterno aprendosi sul fondo ad un’altra spazialità ancora e capace di unire la disposizione paratattica, quasi bizantina, lungo un asse orizzontale, delle figure con una profondità degna della migliore tradizione prospettica. Nelle sue opere, pur riducendo al minimo la presenza di figure (tra l’altro, quella della modella che si specchia, è un chiaro omaggio, ancora una volta, a Velázquez e alla sua “Venere allo specchio”), Modica ci fa ammirare frammenti di scene che rimbalzano senza sosta dall’interno all’esterno, e viceversa, ma ci dà sempre l’impressione che guardiamo qualcosa che a sua volta ci guarda e che addirittura è pronto a fotografarci, visto che la fotocamera spesso è puntata verso lo spettatore. Riflesso e riflessione coincidono nell’onnipresente specchio che espande l’illusione dell’ampiezza del nostro sguardo. La scansione e l’equilibrio impeccabile della geometria compositiva (non va dimenticata, per inciso, la formazione d’architetto del nostro artista) sono irrorati di luce mediterranea, mai puramente mimetica ma internamente percorsa dal ricordo e dalla malinconia, appena concretizzati in quel velo che accarezza tutti i quadri di Modica su cui si imprime la traccia delle abrasioni e delle stratificazioni a palinsesto portate dal tempo. E’ raro trovare in pittura un’osmosi così completa e convincente fra esprit de géométrie e diffusione luminosa come accade nei quadri dell’artista siciliano di nascita e romano di adozione: in questa mostra che racchiude trent’anni di lavoro, ne offrono esempi mirabili opere come “Il pittore nell’atelier (autoritratto)” (1996-97), “Atelier (pittore e modella)” (2002-2003), “Atelier malinconia con fotocamera” (2008), “Studium” (2016), solo per dirne alcuni fra i tanti.  Ogni opera dà forma ad un’assenza recando con sé un presagio e un enigma, come avviene, mutatis mutandis, nel nume tutelare della ricerca di Modica, Giorgio de Chirico, il Pictor Optimus, del quale il nostro artista (che ha avuto una fase iperrealista ed una astratto-geometrica) potrebbe condividere l’osservazione secondo cui “l’arte è composta di elementi concreti ed astratti, ed è legata tanto al mondo fisico quanto al mondo metafisico, il che vuol dire che l’arte rappresenta la creazione più completa che noi conosciamo”. Questa sorta di metafisica mediterranea, in quegli inimitabili azzurri che nascono dall’ariosa ibridazione fra i colori del cielo e del mare in una luminescente tessitura pittorica, non porta con sé alcuna inquietudine allarmante, quanto piuttosto la nostalgia del ricongiungersi con la luce totale delle origini, secondo l’etimologia della parola che rimanda al greco νόστος, ritorno.  

In qualche modo, su un piano per fortuna positivo di clausura creativa, la dimensione di isolamento domestico spesso impostaci dalla pandemia in questi mesi trova una sorta di sublimazione artistica nell’Atelier con la maiuscola, visto che le opere di Modica realizzate nel chiuso del suo studio e spesso dedicate agli atelier di altri artisti approdano in un altro atelier elevato ad un ruolo pubblico e museale. Il lavoro a studio, con la sua disciplina spirituale, con i suoi tempi lunghi, ascetici, pazienti, meditativi e fattivi, indica per Modica il modo stesso di concepire l’arte che si contrappone ipso facto alla creatività usa e getta (dall’effetto luna-park al vetrinismo, dall’esibizione pseudo-sociologica all’effetto discarica) di coloro che spesso rivendicano con orgoglio l’inutilità di avere un atelier. E lo studio, nei quadri del nostro artista, diventa in realtà un archetipo assoluto della pittura stessa in cui il passaggio del tempo è segnato anche dai pavimenti sbrecciati e dai muri scrostati, oltre che da un senso profondo di malinconia metafisica. Lo si vede bene, fra gli altri, in un quadro fondamentale come “Omaggio ad Antonello (S. Girolamo nello studio)” (1990-91), opera in cui sono chiaramente ribadite la necessità vitale della trasmissione di esperienze nel tempo (lo studio dipinto dal grande pittore rinascimentale diventa l’atelier del nostro artista) e quell’osmosi fra memoria di una natura da difendere e storia dell’arte (anch’essa da tutelare, a pensarci bene) che innerva tutta la ricerca di Modica. Fra miraggi, riflessi, rifrazioni, esiti in controluce, rispecchiamenti, ci lasciamo andare perdendoci in questi labirinti della visione mediterranea, sapendo che ammiriamo un’illusione che ci porta altrove, forse un’utopia dello sguardo capace di dialogare efficacemente con quell’afflato utopistico e ideale che, pur in modi diversi, ovunque si diffonde nel Museo Andersen. La vicinanza della realtà visibile viene trasfigurata nella lontananza dell’aura metafisica. Il quadro diventa un dispositivo di moltiplicazione visiva e riflessiva/speculativa: del resto, la parola “specchio” - oggetto decisivo quasi sempre presente nei quadri qui esposti – nasce etimologicamente dal latino specŭlum, derivato da specĕre, “guardare”. L’atto del dipingere diventa così il labirinto dei labirinti che ricorda l’avvenire e riscrive il passato in un attimo infinito, l’origine. Per il nostro artista la pittura va intesa proprio come capacità di conquistare la preistoria di una tradizione, per dirla con Nietzsche, “un riconoscere, un ricordare di nuovo, un retrocedere e un ritornare a casa, in una lontana, antichissima comune dimora dell’anima”.             

                                                                               




                                                                                      Gabriele Simongini