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2018 - Giorgio Agamben

La Luce ricorda

“Affermo che la prima forma corporea, che alcuni chiamano corporeità, sia la luce”.
Con queste parole Roberto Grossatesta, maestro a Oxford nel sec.XIII, inizia il suo trattato Sulla luce. La tesi inaudita che Grossatesta enuncia qui è l’identità fra la luce la forma dei corpi. Nel racconto della Genesi, Dio ha creato, infatti, prima la luce e poi, attraverso questa, il sole e gli altri corpi celesti. “La luce per sua natura si propaga in ogni direzione, così che da un punto luminoso si genera istantaneamente una sfera di luce grande senza limiti”. E poiché la corporeità è ciò che è prodotto dall’estendersi della materia secondo le tre dimensioni, solo la luce, che ha la capacità di propagarsi istantaneamente dovunque, può conferire alla materia la sua forma: “Non fu possibile, in verità, che la forma, in se stessa semplice e priva di dimensione, conferisse le dimensioni in ogni parte alla materia, se non moltiplicando se stessa ed estendendosi immediatamente per ogni dove, trascinando con sé la materia nel suo estendersi, dal momento che la forma in quanto tale non può essere separata dalla materia, né la materia dalla forma”.

Si rifletta alla novità di queste affermazioni: che la luce trascini inseparabilmente con sé la materia, significa che è la luce stessa a farsi materia, che la luce, in quanto corporeità, si identifica in ultimo con la materia a cui da forma. Ed è in questo modo che la luce crea una dopo l’altra le sfere celesti: “dico che la luce, moltiplicandosi infinitamente per propria virtù in ugual misura in ogni direzione, estende parimenti in forma di sfera la materia per ogni dove e, in forza di questo estendersi, nelle parti più esterne della materia si verifica una espansione e una rarefazione maggiore che no nelle parti più interne, vicine al centro... in questo modo all’estremità della sfera si è formato il primo corpo, che è chiamato firmamento”. Il cielo è la prima creazione della luce.

Se la luce è, in questo senso, ciò in cui forma e materia coincidono in un corpo, allora si comprende perché la luce sia per eccellenza il luogo e il medio della pittura. Per chi dipinge, la luce non è soltanto qualcosa che illumina e rende visibili i corpi: è essa stessa a plasmarli, a farli esistere e a renderli conoscibili. Secondo Grossatesta infatti, la luce, come prima sostanza, è anche il principio della conoscenza, è, cioè in se stessa intelligenza: “nella luce creata, che è intelligenza, stanno la conoscenza e la descrizione di tutte le cose create”. La luce non è soltanto fuori dei corpi, ma penetra dentro di essi, dando loro vita e motilità. Occorre sbarazzarsi del diffuso pregiudizio secondo cui la luce non è che il medio diafano della visione. Essa, nella stessa misura, dimora nei corpi, ne materia e esalta i contorni, fa tremare amorosamente le loro forme. Che nella vocazione di Matteo di Caravaggio , la luce sembri provenir dall’alto da una invisibile finestra per posarsi sui corpi è, ovviamente, una pur illusione: la luce sta tutta nei volti e nei corpi che illumina, l’aria innanzitutto.

I quattro pittori che espongono in questa mostra le loro opere si sono ricordati ciascuno a suo modo, di questa particolare natura della luce, del suo essere, nell parole di Grossatesta, “corporeità” (corporeitas). Per questo, nei loro quadri, la luce può a sua volta ricordarsi. Di che cosa? Del suo paziente farsi materia, del suo esser intimamente legata ai corpi, del suo aver formato nel suo lungo viaggio i cieli, l terra, la luna e tutte le figure dei corpi, una a una. E, insieme, del suo essere i principio della loro conoscibilità, cioè intelligenza. Il gesto del pittore coincide perfettamente con questo rammemorarsi della luce del suo incessante itinerario nei corpi, in tutti i suoi aspetti.
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Nella traduzione latina del trattato del medico arabo Alhazen sulla visione, si legge: “tutto ciò che la visione percepisce, lo percepisce attraverso una rifrazione (quicquid comprehenditur a visu, comprehenditur refracte)”. Questo limpido teorema potrebbe servire da motto o emblema per la pittura di Giuseppe Modica. A patto di intendere in quel refracte non solo la riflessione, su cui il pittore non si stanca di meditare, ma anche la rifrazione, che è all’opera nelle sue tele in modo più segreto, ma non meno essenziale. “È da più di 30 anni” ha scritto Modica “ che lavoro sul tema dello specchio, oltre che sulla luce e la memoria. La pittura stessa è uno specchio. Nella superficie dello specchio si unificano e convivono contemporaneamente il piano della lastra riflettente e la realtà riflessa. Diciamo che convivono contestualmente due spazialità: sia quella fenomenica, misurabile e fissa della superficie riflettente che quella fluttuante ed illusoria dello spazio riflesso”. Ma la visione, suggeriva Alhazen, non è spiegabile soltanto come un fenomeno di riflessione, è, insieme, anche rifrazione, cioè quasi impercepibile deviazione del raggio luminoso che passa da un medio a un altro, avente indice di rifrazione diverso. E’ quanto avviene all’onda luminosa che penetra entro le varie “tuniche” dell’occhio (la più importante delle quali non è, secondo Alhazen, la retina, ma l’umore che egli chiama glacialis). E’ in questo “ghiaccio” che Modica insegue e cattura la luce. Non si intende la complessità di tele come il trittico Labirinto (2013), l’Atelier-melanconia (2015) o la Roma riflessa (2005-2006), se non si ricorda che la dialettica fra “superficie e profondità” e “presentazione e rappresentazione” di cui il pittore parla , avviene già all’interno del suo occhio, segna innanzitutto il suo sguardo, memore non solo della riflessione, ma della rifrazione che a essa inerisce. Lo specchio -come l’occhio, come la luce- è metafisicamente diviso, ed è questa scissione che anima e vivifica la superficie apparentemente immobile e glaciale dei quadri di Modica.
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