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2010 - Gabriele Simongini

La luce e il "miele delle ore" Il pittore vive così vicino al rivelarsi del mondo mediante la luce, che gli è impossibile non partecipare con tutto il suo essere all’incessante rinascita dell’universo Gaston Bachelard Per una volta lasciamo da parte i soggetti prediletti da Giuseppe Modica, dimentichiamoli e pensiamo solo a individuare il fiume carsico che percorre tutta la sua opera, al di là dell’iconografia mediterranea affrontata. Ecco, ci accorgiamo con stupore che nelle sue opere più riuscite realtà ottica e verità metafisica, nonché spiritualmente laica, coincidono quasi perfettamente e diventano empirico strumento conoscitivo del mondo, pur rispettoso dei suoi enigmi. Ne emerge un costante, metodico, profondo e misurato elogio della pittura intesa come rito di fondazione di uno spazio intermedio fra realtà ed artificio, percezione e visione, riflesso e riflessione, oggettività ed invenzione, frammento e totalità. E per Modica la pittura coincide con la luce, nella sua inesausta dialettica con l’ombra. Una luce mai puramente mimetica ma internamente percorsa dal ricordo e dalla malinconia, appena concretizzati in quel velo che accarezza tutti i quadri di Modica, artista colto, sensibile e sapiente, capace di creare, al di là dei soggetti trattati, fenomeni completamente nuovi che sono “realistici” sostituti di ciò che si trova nelle parti meno evidenti della natura, come il silenzio, l’integrità, la calma, la gioia. E così nelle sue opere lo scorrere del tempo parla attraverso la luce, ne è quasi dolcemente imprigionato (viene alla mente anche l’ungarettiano “miele delle ore”), e di volta in volta si adagia nel palpitante infinito di cieli e di mari fatti di una vibrante eternità. Se si dovesse scegliere una sola opera di capitale importanza per Modica si potrebbe forse pensare a Il sole nascente (1904) di Pellizza da Volpedo: luce naturale e luminescenza mentale coincidono perfettamente e senza sfasamenti, domina un’irradiazione di energia vitale che trasmette un senso di totalità cosmica e questo capolavoro diventa il simbolo della rigenerazione continua della materia e della natura intesa non come momento contingente ma come valore universale. Lungo questa via Modica ha senza dubbio profondamente meditato su quella perfetta identificazione di colore, linea e disegno conquistata da Pellizza e trasformata dall’artista siciliano in una raffinatissima e luminescente tessitura, al tempo stesso elogio incondizionato della pittura tout court (messo in evidenza pure dalla citazione della scala cromatica inserita in diverse opere recenti come una sorta di ready made dipinto) e della palingenesi della vita. Lo si vede bene, a livelli eccelsi, in opere come La luce e il buio (2008) e Luce-buio (2009). Modica, però, è anche un sensibile sismografo del nostro tempo, e quindi sa che oggi qualunque sguardo sulla realtà è filtrato da innumerevoli media, insaziabilmente inquadrato da mille schermi e obiettivi (la videocamera, la macchina fotografica, la televisione, il computer, e via discorrendo), frammentato, analizzato, anatomizzato, dissezionato. Non è più antropologicamente possibile, insomma, una visione totalizzante ed armonica, che sarebbe solo un’illusione nostalgicamente patetica e completamente fittizia. E così prevale in molte sue opere una poetica del frammento e dello sguardo riflesso, caleidoscopico o a “mosaico”, evidente ad esempio in “Vanitas” (2007) o in “Tra le righe (Rovine)” (2008). Proprio in questa strategia della frammentazione filtrata rientrano ad esempio i motivi da lui prediletti dello specchio e della finestra aperta a scomparti con diverse inclinazioni. L’artista siciliano sa bene che la percezione contemporanea, bombardata com’è da mille impulsi, ha una sua instabile irrequietezza e così egli prima la attrae e poi la cattura con gli spazi multipli e sfuggenti dei suoi quadri che tendono a forare le apparenze, andando alle loro spalle, per così dire. L’occhio incuriosito dell’osservatore si incanala con stupore lungo un labirinto di specchi in cui risuonano come elementi di un puzzle immaginario i più diversi echi, stilistici ed iconografici, della storia dell’arte (la “sintesi prospettica di forma e colore” – citando Longhi – di Piero della Francesca, il poliedro tronco di Durer, il retro della tela desunto da Las Meninas di Velazquez, le sinfonie cromatiche di Whistler, l’analisi della luce di Pellizza da Volpedo e di Balla, gli enigmi di de Chirico, il rigore compositivo del neoplasticismo olandese, ecc.) e memorie di una natura mediterranea concepita come sogno mitico assai più che come realtà concreta. Ma tutto e' straniato, sospeso, interiorizzato, reinventato integralmente pur nel mantenimento di alcuni punti di riferimento archetipi, facilmente riconoscibili (il cielo e il mare, ad esempio), che prendono per mano anche lo spettatore più “ingenuo” per portarlo lungo la “via segreta” di cui ha parlato Novalis, quella che “conduce all’interno. In noi, o in nessun altro luogo, sta l’eternità con i suoi mondi, il passato o il futuro”. E così quello di Modica finisce con l’essere un pensiero labirintico che rende tale anche lo spazio delle sue opere, nate dall’intreccio di esperienze diverse e non gerarchicamente ordinabili: esprit de géométrie (evidente nei rigorosi equilibri e nelle scansioni compositive quasi astratte. E del resto lo stesso Pellizza scriveva: “Certi accoppiamenti di linee rette e di curve nella geometria, ecco alcuni fatti che mi danno l’idea di forza e di dolcezza accoppiate”) ed esprit de finesse, percezione ed immaginazione, sapiente manualità e riflessione concettuale. Non a caso Modica potrebbe ben condividere quanto notato a suo tempo da Giorgio de Chirico a proposito del fatto che la mano ed il cervello si arricchiscono reciprocamente e in modi inimitabili soprattutto attraverso il dialogo continuo innescato dalla pratica artistica “tradizionale” poiché la stessa tecnica è anche una fonte d’ispirazione: “La mano dell’uomo possiede una agilità che non è stata concessa dalla Natura agli altri esseri viventi, quindi il cervello dell’uomo concepisce un’idea che la mano traduce ed esprime creando un oggetto concreto e tangibile. L’oggetto realizzato stimola poi il cervello al pensiero e al desiderio della perfezione”. Nel contesto degli strumenti pittorici appartenenti ad una lunghissima tradizione, l’artista siciliano porta comunque avanti a piccoli e meditati passi una continua sperimentazione tecnica e ideativa che cerca ogni volta una “Modica” innovazione dal cuore antico. In ogni caso i suoi quadri affermano e mantengono un respiro ed una necessità “organica”, un palpitante ritmo interno, un battito che lega indissolubilmente con relazioni magari impreviste e nascoste tutte le loro “componenti visive”. È un battito originato da quella necessità vitale di affermazione autonoma della propria esistenza che le vere opere possiedono, come gli esseri viventi. Così la pittura di Modica dà una risposta concreta ad un’ineludibile domanda di Georges Steiner: “Nel cuore di questa democrazia del rumore, non potremmo tentare di ritrovare il tempo e il silenzio interiore?”.