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2009 Marco Di Capuatesto in catalogo mostra Centro Culturale "Le Muse", Andria, Silvana Editoriale
Blu Modica
Pittore, non sforzarti di essere moderno. È l’unica cosa che sfortunatamente comunque tu agisca non potrai evitare di essere
Salvator Dalì
Che poi non sarebbe soltanto un blu, a voler essere esatti, piuttosto un mutevolissimo azzurro che variando instancabilmente include il celeste, il turchese, il ceruleo, e se guardi bene, magari anche il Blu Klein, quell’idea brevettata e molto esclusiva di un tono indimenticabile e unico e ossessivamente monocromo. E internazionale: International Klein Blu, infatti. Il Blu Modica non ha quel sapore li, di artificio e di spirito, ma di cieli e acque e ceramiche, di aria euforica e rarefatta dove si respira un diverso tipo di ossigeno. È anch’esso ossessivo, il Blu Modica, a modo suo, ti invade la retina però senza essere monotono e monocromo: è duttile, passeggero, evanescente, transitorio: diresti che scorra e che cambi e che, soprattutto, sia proprio un italianissimo blu. Altro che global. Il tema dell’identità è posto e risolto in silenzio e senza retorica: a colpo d’occhio. Siamo fatti così. L’evidenza è semplice, e tutto dipende dal tono in cui ti esprimi.
È giorno? Quello è un sole, o un plenilunio sta scintillando sopra il mare? Non ebbe dubbi, pur nell’attesa di albe e tramonti, l’alter ego di Modica inventato da Antonio Tabucchi nelle Vacanze di Bernardo Soares: “Scrivo dunque per raccontare a me stesso, come se fossi un altro, le cose che io stesso penso di questa mia vita di solitudine: oltre che placare l’inquietudine che accompagna le mie notti”.
Ho dunque davanti dipinti dove il blu, inevitabile metafora della notte, sparge tracce di sé. Blu come se piovesse. “è una mina che fa esplodere tutto, ha una funzione magnetica nel quadro”, mi dice Giuseppe. Si espande ramificandosi ovunque, quasi si trattasse del colore di un qualche sistema sanguigno. Pittura dal sangue blu? Non c’è male. Che ci fosse qualcosa di aristocratico e di decadente nei lavori di Modica lo scrissi anni fa al luogo pieno di specchi, e anche ai pavimenti, che videro gli ultimi istanti del principe di Salina nel Gattopardo. Sentite, a me tutta questa concentrata, modica quantità e intensa celebrazione di una bellezza fatiscente, questa preziosa trasandatezza di lussi polverosi, corrosi, stinti, macchiati, ossidati qua e là, sono vere sciccherie in un mondo che, umano o artistico che sia, si restaura continuamente, risulta manipolato, suona falso.
Siccome qualcuno ci ha incoraggiati e ci ha detto di farci forza anche se abitiamo a un passo dal bamboccio in tuta violacea che, lasciato a piede libero e con un cappuccio in testa sta sporcando un vecchio muro con il suo spray creativo (una parete lasciata bianca per lui è un affronto, il vuoto è un insulto), guardiamo i quadri di Modica con la stessa riconoscenza con cui accoglieremmo chi ci proponesse di ingoiare un antidoto. In effetti suppongo che il valore aggiunto di questa pittura, il suo tratto più necessario e attuale, sia quello di inventare spazi depurati, stanze di decompressione, architetture del nulla. Progettazione, alta stilizzazione e massima articolazione del vuoto: ciò potrebbe funzionare come lo slogan della ditta. Lo sguardo, in questi deserti, che siano stanze o paesaggi, si riconnette a un che di elementare, di essenziale, e indossa i suoi più efficaci occhiali antistress.
Perfino la consapevolezza che Modica in realtà non tanto guarda ma ricorda, ti esenta dallo sforzo di riconoscere oggettivamente il suo mondo, e ci alleggerisce lo spettacolo. Per dire: è come se si trattasse di una memoria anch’essa (come la Sicilia di pietra che attraversa a volo radente, come questo duro pianeta iridescente, rotante sotto il cielo), calcificata, che non trattiene più né storie né nomi, ma soltanto strutture e colori e bagliori al loro stato più puro, quasi gassoso in certi momenti, la la pulviscolare memoria di un animale particolarmente sensibile, cauto, legato al proprio habitat luminoso e labirintico, dove non sia rara, anche per lui, una specie di estasi.
A proposito di strani animali e di cacciatori di luci, ho visto in un film quel genio di Antonio Lopez Garcia tendere fili nel suo giardino prima di cominciare a dipingere. Che so: dall’albero a un cespuglio, e poi all’albero: una fune sottile riquadrava più volte lo spazio reale. Lopez Garcia tendeva la sua trappola. Sarebbe bastato quel gesto a fare di lui il re dei performer e di quell’azione un capolavoro di arte concettuale. E invece il bello era che quello era solo l’inizio, solo un buon inizio, non so se mi spiego: perché dopo il pittore attaccava a dipingere. Anche Modica riquadra. Ma non realtà. Piuttosto questo da sempre si chiama: avere visioni. È comunque inesauribile il suo desiderio di recingere l’immagine, di tagliarla, di farla a fette. Si può dire che serrande mezzo socchiuse, reticoli di mattonelle sopra i pavimenti, cornicioni, incastri di specchi e cornici di retablo servano a questo, a inquadrare e frammentare l’unicità di ciò che vedi, a moltiplicarla rendendo incerta la sensazione se sia più vera una cosa o il suo riflesso. Gran filosofo Modica: non c’è cava monumentale e aspro canyon di blocchi tufacei, non c’è piramide di salina che per quanto solida non sia anche evanescente e spettrale come un sogno, come una reminiscenza. La porta d’accesso alla purezza che questo pittore si è creato può contare sull’istinto del costruttore non meno che su quello di un metodico osservatore di paesaggi inventati, fantastici. Modica vede attraverso. E vede al rallenty. La calma è nel suo gesto. Così che ogni quadro, anche quelli piccoli, così perfetti, è una voce nel vasto catalogo delle lontananze. Nel repertorio che fa più illustri e malinconiche le cose quando fioriscono sottomettendosi allo scorrere del tempo e arrivano al punto, sull’orlo, di essere perdute. Il pianeta di Modica continua a roteare e le superfici hanno la tentazione di sfaldarsi. Ma le pareti reggono, i cardini non cigolano. Il minimo che si possa chiedere a un sogno o a un ricordo: non ti muovere, e comunque non svanire.