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2006-7 - Roberto Gramiccia
Giuseppe Modica è la dimostrazione vivente di come si possa essere intellettuali e ricercatori visivi senza necessariamente usare strumenti espressivi diversi da quelli della tradizione. E di come sia sbagliato incartare gli artisti dentro etichette riduttive e fuorvianti per cui tanto per dirne una un pittore figurativo è necessariamente tradizionalista e un videoartista è necessariamente innovativo.
Ora l’opera di Giuseppe Modica anche per questo è interessante perché dimostra una persistente intenzionalità innovativa (modernista, persino neoavanguardista) perseguita attraverso la cocciuta resistenza alle lusinghe delle mode e del mercato da un lato e, dall’altro, attraverso l’esercizio quotidiano e certosino di una pittura che è meditazione e ricerca, sensualità e compassione, ma anche ragione pitagorica e illuminista. Un oggettivo sovversivismo percorre l’opera e l’investigazione di questo umanista appassionato e radicale. Suo malgrado Modica è un giacobino della pittura, della qualità e dello stile intesi come contributo personale al grande cammino che l’umanità ha intrapreso a partire da Altamira, non solo per contentare committenti e far marchette (tra virgolette) ma per andare avanti, progredire e staccarsi di dosso l’idea della morte. Insomma per vivere piuttosto che sopravvivere.
Il concettualismo di Modica, reso caldo dalla sua 'sicilitudine', è appunto tale perché sceglie la strada personale di una pittura che non è realista né visionaria, non è epica né intimista, non è espressionista né surrealista e nemmeno metafisica nel senso stretto del termine. E lo fa, facendo tesoro della lezione di Duchamp, o meglio di ciò che di Duchamp può essere conservato e sviluppato senza che larte ne muoia. E cioè la centralità dell’idea, del pensare rispetto al fare. In questo senso il pittore di Mazzara Mazara del Vallo è ideologico. Nel senso che la sua idea della pittura viene prima della pittura stessa e coincide con quella di qualità e di stile. Che questo si sostanzi in atmosfere calde e seducenti non significa nulla. Non è il reclutamento delle percezioni sensoriali lo scopo che l’artista si propone. Del resto, anche se i sensi fanno parte della vita, la loro proiezione corticale non è distante dalle zone della corteccia cerebrale che presiedono all’ideazione, alla formazione del pensiero. Per dirla più semplicemente: è anche con il cuore che si pensa. Chiedetelo a Feyerabend, il padre dell’anarchismo epistemologico, se avete dei dubbi, o a Renato Caccioppoli che conciliava musica e matematica insegnando ai suoi studenti che il miglior matematico non può non essere - prima - un poeta.
Modica fa parte di quella schiera (speriamo) interminabile di uomini che prendono le mosse dal pensiero del più grande dei meridionali: Giordano Bruno. Un pensiero grande e unitario, insieme spiritualissimo, pre-scientifico e carnale. Un po’ come la pittura di Giuseppe, appunto, che è insieme emozione e ragione, emozione ragionata e ragione emozionante. Che non è occasione di svagoma, semmai, di infaticabile rovello sull’enigma di sempre: che cosè la pittura e perché riesce a resistere persino allo sviluppo onnivoro della tecnoscienza e a quello caotico e anaplastico della comunicazione. Modica sa bene che nulla si crea per partenogenesi, che l’arte non segue 'diagonali ascendenti e che il tempo nell’arte'è un circolo che ritorna al punto di partenza' (Argan). Per questo segue la sua strada guardando avanti senza trascurare quello che c’è alle spalle e di lato. Non rinnega i suoi maestri perché non ha il complesso del passatismo. Parla con affetto filiale di Piero della Francesca e della grande tradizione fatta propria da De Chirico e dal Realismo Magico, attraverso la lezione neoimpressionista di Seurat e quella del Divisionismo di Pellizza e di Morbelli. E non solo ne parla, ma intrattiene con essi un dialogo continuo un po’ come fece Antonello da Messina, suo conterraneo, con i maestri del suo tempo.