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2002 - Luigi Burzotta

Padre non vedi...? Inizia con queste parole di rimprovero l’appello del figlio al padre. Lasciando un vecchio a vegliare il figlio morto, il padre è andato a cercare un po’ di ristoro nel sonno, spostandosi nella stanza accanto. In sogno il figlio lo viene a trovare e scuotendogli il braccio gli dice: padre non vedi che brucio? Il padre non ha occhi per vedere che cosa? Che una candela si è ribaltata sul corpo inerte del figlio, facendogli andare a fuoco il braccio? Certamente no! Perché èproprio questo incidente a provocare il sogno e il risveglio del padre, che ha così la percezione esatta di ciò che accade nella stanza accanto. Ciò che il padre non vede è il punto da cui il figlio brucia, non già nella stanza accanto con la fiamma attizzata dal cero, ma quel punto del reale in cui il padre ha deposto lo sguardo e dal quale adesso il figlio lo guarda col crepitio bruciante di una fiamma. Dietro l’incidente increscioso del cero rovesciato sul braccio inerte del bambino che prende fuoco, al quale si può subito rimediare rimettendo, per quanto costernati, le cose a posto, c’è un altro incontro, quello che il padre non può che mancare in quanto padre; perché a quel livello, del reale, l’incontro è sempre mancato. Padre non vedi...? La schisi che separa il punto da cui si vede dal punto da cui si guarda è irrimediabile, in quanto ciò che guarda è esterno al soggetto. Se c’è qualcosa che merita la designazione dall’aria un po’ esoterica di oggetto piccolo a è proprio lo sguardo, perché nel discorso comune si fa un po’ di fatica a considerare lo sguardo come oggetto. Lo sguardo è della serie privilegiata di quegli oggetti, con qualcuno dei quali il soggetto, per istituirsi come tale, deve aver fatto l’esperienza di separarsene come dalla cosa più preziosa, restando per questo perennemente sospeso a questo piccolo a. Se si fa fatica a considerare lo sguardo come oggetto è perché nel campo della visione tale presenza è meno sensibile, cioè più facile da disconoscere; in quanto la visione si presta all’equivoco di confondersi con quella presunzione della coscienza di essere trasparente a se stessa. Tutto comincia da Platone che vede il sommo bene nella contemplazione dell’Idea. Il pittore è colui che può toglierci da questo equivoco perché, avendo la facoltà di elevare al massimo grado l’illusione della trasparenza, senza saperlo opera in modo tale che in ciò che dà a vedere è già per noi apparecchiata la trappola, affinché restiamo preda dello sguardo; di modo che, invertite le posizioni, è il quadro che guarda. Qualcosa nella trama del dipinto, non sappiamo bene che cosa e dove, ma ne proviamo il sentimento certo, fa sì che siamo noi a fare da quadro. Questo effetto è dato dalla sensazione che possiamo avere del desiderio del pittore. Giuseppe Modica suole dire che l’elemento specchio nella sua pittura ha la funzione di filtro, del quale la memoria si serve per restituire ciò che è stato ritenuto e messo da parte nel passato più o meno remoto più o meno recente. S’intende meglio questa nozione di filtro riferita allo specchio se si considera che gli specchi nei quadri di Modica presentano sempre una velatura di antico o comunque di corrotto, con un fitto ricamo di macchioline che spesso si allargano o si allungano in macchie più estese. Nella produzione più recente la velatura è data dall’uso di uno specchio improprio, che è costituito di preferenza dalle ante spalancate di una vecchia finestra che si apre su di un paesaggio: un’improbabile vista dal mare, attraverso la finestra di un edificio, di una città costiera; una campagna ordinata dal disegno regolare dei filari di verde e dalle gradinate di un antico anfiteatro coi tempio greco che scolora in lontananza; oppure la Valle dei templi di Agrigento con la città nuova fatta di nebbia aggrumata sullo sfondo — paesaggio che l’occhio può mirare in presa diretta, ma anche di sbieco nel riflesso dei vetri ai quali è il bassorilievo dei battenti accostati a dare la proprietà riflettente. Nell’uno e nell’altro caso l’immagine, passando attraverso il filtro sgranato dello specchio, lascia trapelare la presenza di qualcosa che solitamente è occultato dalla nitidezza e dalla trasparenza della luce. Non è un’esperienza rara che qualche volta l’occhio debba essere protetto da uno schermo per poter discernere ciò che sta sotto un fascio di luce. Non bisogna tuttavia credere che la pittura di Modica presenti una superficie opaca, perché essa al contrario cattura l’occhio con i suoi azzurri attenuati da una paffida luce all’orizzonte e con i grigi brunastri a contrasto con i bianchi prodigiosamente alluminati da sorprendenti falde di sole. Eppure dall’insieme della composizione ci viene la certezza che nella tela il pittore ha messo in serbo per noi qualcosa che ci tiene sospesi, perché in quell’atto stesso in cui il pennello ha lasciato i bianchi e gli azzurri, i grigi e i bruni, il pittore vi ha deposto qualcosa che garantisce la qualità di atto alla sua pittura, che implica cioè il soggetto e la sua divisione. Si tratta di quello sguardo di cui abbiamo già definito la natura di oggetto, già isolato nell’analisi come oggetto parziale, ma meglio individuato da Lacan nella sua funzione di ciò che 'può venire a simbolizzare la mancanza centrale espressa nel fenomeno della castrazione'. Per il fatto di riproporre la castrazione lo sguardo subisce la stessa sorte di disconoscimento dei suoi consimili; ma quando il pittore si spinge oltre il rito rassicurante della contemplazione egli comincia ad avvertire l’ascendente di tale oggetto sul proprio desiderio, al cui centro non può che esserci la mancanza. Nei dipinti di Modica tutto questo si traduce nelle parti sfocate, nelle macchie, nelle screpolature, negli elementi incongrui, in tutto ciò insomma che desta una certa, seppure impalpabile, inquietudine. Questa precessione dell’oggetto sul desiderio è resa sensibile nelle nature morte; quando si ha l’impressione che il cesto di limoni posto dinanzi allo specchio sia piuttosto l’effetto del suo riflesso nello specchio che la causa. Lì nello specchio troviamo gli stessi limoni che, come nuclei di colore in uno stato magmatico di fusione, emettono bagliori di giallo; sicché da quelli pare che si siano originati questi, che vediamo distintamente ben composti davanti allo specchio nel cesto, da dove trasmettono la vibrazione di cosa appena nata. D’altra parte nulla come certi interni di Modica, misteriosi e vibranti per il palpito ancora vivo nell’aria di una recentissima presenza, ci può dire che di li è passato il soggetto. Similmente le ultime finestre di Modica sono atte a rappresentare ciò che Lacan designa come fantasma e cioè la condanna per il soggetto a svanire dinanzi al proprio oggetto privilegiato: quello al quale nessuno sa di essere rimasto sospeso, per averlo staccato da sé come prezzo da pagare per la propria identità soggettiva. Oggetto braccato da Freud nel sogno dell’Uomo dei lupi, dove la schisi tra occhio e sguardo è segnata da una finestra spalancata; di là della quale sei o sette lupi bianchi seduti con le orecchie ritte sui rami di un albero guardano fissamente il soggetto. Poiché questa fissità corrisponde a quella del soggetto nell’esperienza fantasmatica della scena primaria ricostruita da Freud, lo sguardo da un lato si rivela come ciò a cui il soggetto è più propriamente identico; ma dall’altro, come ciò che esprime il suo più intimo godimento, esso deve essere staccato, ritagliato e lasciato cadere. Nel sogno, il soggetto da una parte e i lupi che guardano dall’altra, di là dalla finestra, rappresentano questo distacco; mentre il profilo riquadrato della finestra è il taglio con il quale è stata eseguita l’operazione: taglio sempre beante che, se testimonia la schisi ormai irrimediabile tra occhio e sguardo, certamente è il profilo del soggetto nella sua radice di desiderio. Si tratta insomma di una automutilazione che ha permesso al soggetto di aprire la sua finestra sul mondo, perché il distacco riquadrato del godimento è quello stesso che fornisce il quadro su cui si tiene la realtà. Devo a questo punto precisare che il nostro pittore, per il fatto che sia mio amico, amico di qualcuno cioè che vuole essere lacaniano, non ha l’obbligo di conoscere la dottrina di Lacan e certamente non sa nulla di fantasma e di oggetto piccolo a. Tuttavia credo non gli manchi la sensazione che il desiderio sia la molla della sua arte; e per desiderio intendo quello di cui noi, in quanto analisti, parliamo, che ha le sue radici nell’inconscio e che, paradossale e contraddittorio nelle sue manifestazioni, non gode ordinariamente cli buona accoglienza. Ciò che egli avverte come strano malessere e spinta alla ricerca di qualcosa che, durante la realizzazione di un quadro, non si può mai sapere in anticipo, ma che pure alla fine gli fa dire che il quadro è risolto; questo è il punto di passaggio in cui il desiderio del pittore si apre la strada nel dipinto. Allora le distonie e i contrasti propri al desiderio innervano l’armonia e l’equilibrio della composizione, affiorando alla su perficie come sottile inquietudine e conferendo alla pittura di Modica quel fremito inconfondibile che la caratterizza. Inversamente, il sentimento pacificante di serenità che la stessa pittura sembra trasmettere, almeno a tutti quelli di cui ho potuto raccogliere l’impressione, deriva forse dall’appagamento dell’occhio nella sua attitudine di appetito insaziabile; alla cui voracità il pittore dà in pasto l’esca del 'dare a vedere' per prenderlo nella trappola dello sguardo. A tal proposito Lacan ci suggerisce (Seminario XI, p.l 17) che 'è a questo registro dell’occhio come reso disperato dallo sguardo che dobbiamo rivolgerci per cogliere il motivo appagante, civilizzatore e affascinante della funzione del quadro.