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1996 - Massimo Onofri

Tutte le tele di questo artista, che sa impugnare il pennello come pochissimi altri, convergono verso un baricentro di felicità impossibile, quella di un’infanzia improbabile, senza gridi e smemoratezze, in un mondo non più salvabile dai bambini. Una felicità che, insomma, pur essendo contemplabile, e quasi a nostra disposizione, non potrà più essere appannaggio degli uomini, ma, forse, solo di qualche divinità minore e imperfetta, la quale sia capace, nella sua eternità, anche di immedicabili malinconie. Ecco perché certe icone di Modica, che potrebbero appartenere ad un trovarobato novecentesco (un vecchio mobile, uno specchio sgraffiato e arrugginito, un vaso, qualche natura morta), sono invece la necessaria traccia di una pienezza esistenziale che è andata perduta per sempre. Abbiamo citato, per comodità del lettore, solo opere pubblicate nel catalogo Fabbri, ma non sarà inutile aggiungere che in questi anni, pur non cedendo nulla della loro utopica luce, i paesaggi di Modica siano incalzati dall’ingiuria del tempo: mentre la presenza del mare si riduceva, e quei miraggi si assottigliavano, gli interni disabitati, coi maiolicati sempre più devastati, sembravano come moltiplicarsi in specchi ogni volta più opachi, quasi la luce fosse assoggettata ad una impercettibile cancrena. È, questa, una tentazione di lutto che, prima o poi, finisce per impadronirsi di quasi tutti gli artisti isolani, pittori o letterati che siano, non importa quanto luminosi fossero stati i loro esordi. Dalla Sicilia, dal suo destino di offese, un siciliano, forse, non potrà uscire mai: questo almeno ripeteva Leonardo Sciascia, che di Modica è stato ammiratore. Ed è a causa di tale tentazione di lutto che, in queste tele, Ma zara diventa una ferita di luce.